Oggi abbiamo il piacere di intervistare Marco Mizzau, manager e leader di successo che ha lasciato un segno di rinnovamento gestionale e culturale in molti settori strategici della finanza e dell’industria italiana.
Nato nel 1977, ha conseguito la laurea in Economia presso la Luiss Guido Carli di Roma con il massimo dei voti a 22 anni. Da allora, ha costruito una carriera eccezionale, che lo ha visto protagonista in realtà di alto profilo come Ferrovie dello Stato, Ernst & Young, Accenture, il Campus Bio-Medico fino ai recenti ruoli di Direttore Generale ed Amministratore Delegato in InarCassa ed in Consip.
Qui, sotto la sua guida, l’azienda ha raggiunto sfidanti traguardi anche legati alla trasparenza, digitalizzazione e sostenibilità degli appalti pubblici, contribuendo in modo significativo al raggiungimento degli obiettivi del PNRR.
In questa intervista, Marco Mizzau ci aiuta a comprendere in modo più approfondito l’importanza del Private Equity come strumento di sostegno alle piccole e medie imprese italiane (PMI) in un contesto sempre più globalizzato e digitalizzato.
In quanto, le PMI costituiscono il cuore pulsante del tessuto economico italiano, rappresentando una parte significativa del PIL e un’importante fonte di occupazione.
Buongiorno, Dottor Mizzau, sono felice di iniziare questa intervista con lei e la prima domanda che vorrei porle è perché ritiene fondamentale sostenere l’internazionalizzazione delle PMI italiane?
“Per numero, fatturato e impiego di forza lavoro, le PMI attualmente rappresentano una struttura portante e vitale dell’intero sistema produttivo nazionale. Per uscire dalle grandi crisi (guerra del Kippur, crisi Lehman Brothers, Covid) l’obiettivo fondamentale è sempre stato (o doveva essere) quello di concentrarsi sul fare di tutto per aumentare l’indice della produzione industriale e la ricetta è stata (o doveva essere) quella di spingere il più possibile su innovazione tecnologica e produttività del lavoro (valore aggiunto per ora lavorata).
Questo ragionamento porta inevitabilmente al centro le PMI virtuose.
Tuttavia, questo ricco tessuto di imprese potrebbe non avere futuro. Quasi il 65% è a conduzione familiare, con leader che per più di un quarto hanno oltre 70 anni, senza un piano di successione reale. Mario Draghi, quando era ancora Governatore della Banca d’Italia, nelle considerazioni finali rese nel 2007 metteva in evidenza come la proprietà familiare fosse “un asse portante per il nostro paese e l’identificazione dell’imprenditore con l’impresa è un motore di sviluppo”.
Proprio per questo sono essenziali gli strumenti che ne agevolano il ricambio, se necessario. Quando la proprietà familiare perde il gusto del rischio creativo, quando la ricchezza investita nell’azienda comincia a essere vista solo come fonte di rendite o di benefici privati del controllo, l’immobilismo proprietario può diventare un freno alla crescita dell’impresa, la avvia al declino.
È allora che diventa maggiore per l’impresa il bisogno di intermediari. Intermediari come gli operatori del private equity, rappresentativi di una forma di finanziamento e accompagnamento che possono contribuire efficacemente allo sviluppo delle PMI familiari. Queste, tuttavia, mostrano una certa diffidenza nei confronti di queste operazioni”.
A fronte di ciò, quali strategie ritiene fondamentali per sostenere l’internazionalizzazione delle PMI italiane, aiutandole a competere efficacemente nei mercati globali senza perdere la qualità e il valore distintivo del Made in Italy?
“Voglio iniziare dicendo che attualmente c’è un alto potenziale disperso. Come si evince da una simulazione di McKinsey: se si portasse la produttività delle PMI italiane allo stesso livello di quella dei “campioni europei” di produttività nei diversi settori analizzati dal report, si otterrebbe un incremento del Pil italiano pari al +6,4 per cento.
In questo caso, una soluzione a supporto delle PMI Italiane per il loro processo di internazionalizzazione è sicuramente rappresentata dai fondi di Private Equity. Questi fondi
agevolano la crescita (in termini industriali ed internazionali) delle PMI attraverso: l’apporto di capitale e l’apporto di know – how.
L’apporto di capitale permette, in un primo momento, di realizzare progetti di sviluppo e internalizzazione e permette di sostenere la società in operazioni di acquisizione.
Le PMI su cui i fondi di private equity solitamente investono per favorire il salto dimensionale dell’impresa spesso hanno tre assi:
Entrando maggiormente nel dettaglio, quali sono i vantaggi del Private Equity che possono agevolare la crescita delle PMI italiane?
“Il Private Equity è uno strumento finanziario per la crescita e deve essere funzionale alla strategia dell’impresa. Spesso invece gli imprenditori di aziende di piccole e medie dimensioni scontano un timore reverenziale nella relazione con il private equity che li porta a farsi guidare nell’approccio e orientare nella strategia. Solo la lettura e valorizzazione congiunta di tre prospettive, finanziaria, manageriale e organizzativa, permette di comprendere appieno il valore del coinvolgimento di un fondo di private equity.
Qualora l’impresa abbia già coperto internamente in modo eccellente la componente manageriale e organizzativa, evidentemente cercherà il partner più conveniente, che condivida le prospettive di business con la richiesta di un rendimento minore e con way-out chiare e compatibili con il business stesso.
Qualora invece le due componenti interne (manageriale e organizzativa) non siano ben strutturate e affidabili, la scelta del fondo più adatto andrà calibrata anche tenendo conto delle necessità di supporto a questi specifici ambiti e, in particolar modo, delle aspettative di cui si è portatori”.
Posso chiederle come mai in termini professionali dà molta importanza agli investimenti e al supporto delle PMI e delle Start Up? E in che modo affianca gli imprenditori attualmente.
“Le PMI e le start up sono state sempre al centro delle sfide del mio percorso professionale. In Inarcassa abbiamo puntato molto sugli investimenti nell’economia reale attraverso la valorizzazione delle realtà produttive italiane sia sul fronte del Private Equity del Private Debt e del Venture Capital. In Consip attraverso la completa digitalizzazione della piattaforma di eProcurement abbiamo permesso a 180.000 imprese di “fornire” più di 16.000 PA facendo dell’Azienda una leva industriale ed abilitatore di spending review.
Ad oggi, nel mio ruolo di Strategic Advisor al fianco di imprenditori lungimiranti e società di investimento diamo la possibilità ad eccellenze italiane (apparentemente sottotraccia) di adottare un approccio industriale e competitivo.
Le strategie di iniezione di capitale nelle PMI però devono essere graduali ed in equilibrio con la visione dell’imprenditore. Il nostro Paese può costituire un terreno florido per gli investimenti di private equity nella fase di sviluppo delle imprese domestiche, non solo in ambito nazionale, ma anche in un contesto internazionale. Infatti, il risparmio dei cittadini italiani, anziché essere riversato nel canale bancario caratterizzato da una forte rigidità e da rendimenti bassi, potrà essere sempre più canalizzato nella direzione degli investimenti di private equity, con un duplice effetto positivo nel panorama nazionale.
Dal lato dei risparmiatori, in un arco temporale medio-lungo (pari a circa 7/10 anni), gli investimenti di private equity potranno generare ritorni per i cittadini italiani notevolmente più elevati rispetto ai possibili ricavi a seguito della raccolta bancaria del risparmio di tipo tradizionale. Dal lato degli imprenditori, a fronte della difficoltà sempre maggiore per le imprese domestiche di accesso al canale creditizio, in particolare durante periodi di crisi economica, il private equity potrà affermarsi come il mezzo per eccellenza per il supporto alla crescita di aziende piccole e medie.
Non è anche da sottovalutare il ruolo implicito di garanzia svolto dai fondi di private equity verso altri possibili finanziatori di un’impresa, migliorando in tal modo lo “standing” di tale impresa nei confronti del sistema creditizio, elevando l’affidabilità finanziaria e consentendo l’afflusso di capitali a condizioni meno onerose rispetto alle condizioni di mercato. Enti a partecipazione pubblica possono partecipare in un processo di rilancio delle imprese nazionali sostenendo la raccolta di capitale privato. Cassa Depositi e Prestiti nel 2020 ha investito molto nel fondo denominato “Fondo dei Fondi Private Equity Italia”.
Quali sono, a suo avviso, le tecnologie digitali e le innovazioni più rilevanti che possono essere adottate dalle PMI italiane per migliorare la loro resilienza e sostenibilità, e come queste tecnologie possono favorire una crescita equilibrata nel lungo termine?
“Negli ultimi tre anni, il mondo dell’impresa ha attraversato situazioni che hanno pesantemente sollecitato i suoi modelli organizzativi e di business, a cui le piccole e medie Imprese più digitalmente mature hanno saputo rispondere con una maggiore prontezza e resilienza. Penso, inoltre, che anche la transizione verde sia strettamente legata a quella digitale. Ma per riuscire a favorire una crescita equilibrata su lungo termine è necessario
Disporre di fonti/canali di finanziamento adeguati, Il ricorso a investimenti privati costituisce una fonte importante per le PMI che devono finanziare la propria transizione digitale.
L’utilizzo della cassa e delle disponibilità liquide rimane oggi ancora il principale canale (82%), specialmente per le medie imprese. Segue poi il ricorso a linee di debito bancario (33%), particolarmente rilevante per le piccole imprese, e il ricorso a prestiti garantiti e/o intermediati da enti pubblici (20%), come nel caso della liquidità messa a disposizione attraverso il Fondo di Garanzia PMI. Infine, risulta ancora di nicchia l’utilizzo di mezzi di finanziamento in equity o di strumenti innovativi (come, ad esempio, minibond o crowdsourcing).
Le tecnologie digitali e le innovazioni più rilevanti, invece che possono essere attualmente adottate dalle PMI italiane sono a mio avviso 3: IA, Quantum Computing e Blockchain”.
Quali passi concreti suggerirebbe per aumentare la consapevolezza e le capacità di digitalizzazione delle PMI italiane e colmare il divario tra domanda e offerta di soluzioni digitali? Inoltre, come potrebbero le istituzioni finanziare efficacemente questo processo tramite strumenti di debito e capitale di rischio?
“Le raccomandazioni finali per promuovere la digitalizzazione delle PMI italiane si concentrano su tre punti chiave. In primo luogo, è necessario aumentare la consapevolezza e le capacità digitali di queste imprese. Creare una fonte centralizzata di informazioni, che riunisca e coordini tutte le risorse disponibili, come associazioni di categoria, hub di innovazione digitale e centri di competenza. Inoltre, per accelerare la digitalizzazione, è utile sfruttare gli appalti pubblici e i rapporti con le grandi aziende, facilitando così l’accesso delle PMI alle opportunità digitali. In secondo luogo, occorre colmare il divario tra domanda e offerta di soluzioni digitali. A tal fine, è importante sviluppare meccanismi che orientino la creazione di nuove soluzioni per soddisfare le esigenze del mercato. Una possibile iniziativa è la valorizzazione governativa di una piattaforma di digitalizzazione integrata, che permetta di mettere in relazione diretta la domanda e l’offerta di soluzioni tecnologiche. Infine, rafforzare la disponibilità di finanziamenti sia tramite il debito che con capitale di rischio. È essenziale facilitare l’accesso al credito per le PMI tramite il sistema bancario, incentivando, ad esempio, la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) ad ampliare le sue linee di credito, includendo prestiti specificamente dedicati alla digitalizzazione e innovazione delle PMI italiane. Inoltre, la BEI potrebbe agevolare l’accesso al capitale di rischio per le PMI innovative, incrementando la disponibilità di fondi per il private equity e il venture capital e creando schemi di investimento specifici per l’Italia, supportando così finanziariamente e strategicamente i fondi interessati a investire nel panorama nazionale”.
Abbiamo parlato a lungo di PMI e dell’impegno che queste devono infondere per riuscire a crescere in modo da diventare sempre più rilevanti per il tessuto economico italiano. Adesso però data la sua lunga esperienza, vorrei farle una domanda un po’ più personale, quali sono i fattori determinanti che possono creare una maggiore resilienza sia a livello individuale e poi professionale?
“Voglio raccontarle un aneddoto, quando ero studente (non si finisce mai di esserlo) spesso mi capitava di incolpare le circostanze, le aspettative che su di me avevano gli altri – magari i miei genitori -, gli effetti delle decisioni altrui, il tempo, il governo, la crisi economica, il traffico, un raffreddore, per il mancato raggiungimento di un obiettivo, per un apparente e transitorio fallimento. Poi ho capito, a mie spese, che – assumersi la totale responsabilità della propria vita – è il primo passo per prendere in mano veramente, a prescindere dall’età anagrafica, le redini del proprio futuro. Questo certamente comporta la consapevolezza che tutto dipende esclusivamente da noi, dalle nostre scelte, dalle nostre decisioni, dalla nostra perseveranza e dalla nostra disciplina quotidiana. Quando rimaniamo estasiati di fronte alla performance di un atleta, di un pianista, dai successi di un manager o dal patrimonio netto di un imprenditore, quello che vediamo è solamente il punto di arrivo, la meta raggiunta, l’opera o la performance realizzata. Non vediamo tutti i giorni, tutti gli anni di allenamento, di conservatorio, di studio, tutti uguali, con il sole o la pioggia, anche il primo gennaio e a Ferragosto; non vediamo le cadute, i fallimenti, i rifiuti, le occasioni mancate. Eppure, tutto questo (e molto di più) si nasconde dietro a quelle faticose conquiste. Tutte le persone che hanno raggiunto i loro traguardi sono partite dalla completa assunzione di responsabilità nei confronti delle loro scelte; e per quanto concerne gli accadimenti esterni o le circostanze della vita, ha contato solamente come hanno deciso di reagire”.
Per concludere l’intervista, secondo lei esiste una chiave – oltre alle competenze e alle risorse economiche – che possa essere davvero alla base del successo, sia per le aziende che per le persone?
“Pensiamo un attimo a quando eravamo bambini e ci preparavamo per una gita o un viaggio. Cosa succedeva? Saltavamo in piedi, vestiti e pronti a partire già prima che i nostri genitori si svegliassero. Sa perché? Perché immaginavamo tutte le cose inaspettate che ci sarebbero potute accadere. Ed è così che dovremmo vivere le nostre vite: svegliandosi ogni mattina con la voglia e la consapevolezza di aspettarci l’inaspettato, di credere che qualcosa di insolito e straordinario accadrà come risultato dei nostri sforzi. Sergio Marchionne ci ha insegnato che un gruppo di persone, per essere eccezionale, ha bisogno di un significato, di una sfida che valga la pena affrontare: “Siamo qui e lo facciamo perché abbiamo una missione.” In una squadra così, la struttura non è piramidale, con cariche definite. Ognuno è giudicato in base a come fa il proprio lavoro; non è una democrazia, ma una comunità fondata su merito e passione. E non ci si partecipa per soldi o per ego, ma per essere parte della missione. Per ottenere ciò che non si ha mai avuto, però, bisogna fare qualcosa che non si è mai fatto. Bisogna uscire dalla zona di comfort e, a volte, fare un salto oltre il burrone della paura. Immagina di trovarti, alla fine della vita, circondato dai fantasmi delle idee, dei talenti, delle abilità che la vita ti aveva donato e che, per qualsiasi ragione, non hai mai realizzato. E loro ti guardano, delusi, dicendo: “Solo tu avresti potuto darci vita, ma non lo hai fatto. Ora dobbiamo morire con te, per sempre.” Ora chiediti: se oggi fosse l’ultimo giorno, quali sogni, obiettivi, abilità, talenti e doni morirebbero con te? Non c’è tempo per giudicare o lamentarsi. La vita è breve. Ci vediamo a lavoro!”